La storia
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Già 6000 anni prima di Cristo, troviamo testimonianze tangibili di mattoni crudi: famoso è l’uso del mattone per costruzione delle torri templari babilonesi, come quella di Ur, alte fino a 16 metri. La tecnica del mattone crudo era più che mai semplice: impastato, spesso combinato con paglia tritata, pressato e preformato, era lasciato ad indurirsi esposto al sole.
Con il mattone crudo sono stati realizzati i primi agglomerati urbani come Gerico e Çatalhöyük (o Çatal Hüyük) e successivamente, le principali opere dell’architettura mesopotamica, che poi introdurrà l’uso generico del mattone cotto.
È attorno al 3000 avanti Cristo che appare il mattone cotto, ma è con la civiltà romana che la tecnica muraria con laterizi cotti trova largo impiego. L’arte di cuocere l’argilla è nota ai romani fin dal V sec. a.C. Ma per i mattoni cotti in fornaci, bisognerà attendere l’età dell’Impero. Ce ne dà conferma lo stesso Vitruvio nel suo trattato De architettura, riferendosi all’uso dei lateres, nella tecnica costruttiva del tempo.
La cottura dei mattoni fu una grande conquista, perché l’uso di mattoni crudi richiedeva un lunghissimo periodo di essiccazione, senza contare la maggiore resistenza del nuovo prodotto. È sintomatico che dopo la devastante alluvione del Tevere nel 54 a.C. l’impiego dei mattoni crudi, fu addirittura proibito a Roma, questo perché le acque avevano prodotto negli edifici invasi il dilavamento dell’argilla costituente le strutture murarie.
La crescita edilizia favorita dal mattone cotto, fu il tratto dominante di quegli anni. L’aumento della popolazione impose di raggiungere considerevoli altezze costruttive degli edifici, basti ricordare le insulae residenziali ostiensi, che grazie a strutture murarie portanti in laterizio cotto, raggiunsero i 4 piani. E con i mattoni si producono embrici per coperture, ovvero tegole e coppi, la forma e l’uso dei quali risalgono a civiltà antichissime. Tegula ha radici nel verbo tegere, ‘coprire’.
Mattoni
crudi
A Roma predomina il mattone cotto in dimensioni standardizzate, impiegato sia come materiale strutturale, sia di paramento per i muri a sacco, con interno in calcestruzzo. Attorno al II secolo d.C. la produzione del laterizio cotto raggiunge ottimi livelli qualitativi e a questo periodo risale la consuetudine, presso le fornaci romane, di marchiare i laterizi con simboli di riconoscimento (bolli doliari) che permettevano di risalire al luogo di produzione e al periodo.
Nell’antico Oriente il mattone crudo, essiccato al sole, aveva già avuto una lunga storia e tradizione, particolarmente in Mesopotamia e in Egitto, dove la pietra e il legno erano o troppo costosi o molto scarsi (e dove l’acqua e il calore del sole costituivano risorse inesauribili). L’Asia Minore, ricca di questi materiali, aveva meno bisogno di sostituirli, ma anche qui, come del resto in altre regioni d’Europa, il mattone era usato come materiale economico ‘secondario’, con o senza strutture lignee.
A Pergamo, Mileto, Aspendos e Side il mattone è stato impiegato anche nelle coperture a volta e a cupola di mausolei, mercati e rotonde (II sec. d.C.). In questi centri era diffuso anche il sistema di alternare, nelle murature, il conglomerato cementizio a corsi orizzontali di mattoni, che occupavano tutto lo spessore della parete.
A Roma, nello stesso periodo, il mattone era utilizzato invece per contenere, su entrambi i lati, il nucleo centrale della muratura, realizzato in conglomerato cementizio (opus caementicium).
Questo sistema (detto opus testaceum) consentiva di ridurre al minimo l’uso di casseforme in legno e di controllare accuratamente l’allineamento verticale e orizzontale della muratura.
In Italia il suo impiego si era già diffuso in tutte le regioni, grazie all’esperienza degli Etruschi, attraverso una fitta rete di fornaci.
Fin dalle origini il mattone ha avuto forma di parallelepipedo: testimonianza dell’attività dei primi fornaciai è il mattone manubriato, chiamato così per la fessura utilizzata come presa per renderlo più maneggevole. Le sue misure erano cm 29,5 x 45 x 6,5 e il peso di 16 kg. Più tardi si è stabilito un preciso rapporto tra le sue tre dimensioni: di solito la lunghezza è il doppio della larghezza e questa è due volte lo spessore.
Opus vittatum, Villa di Tiberio, Sperlonga
L’uso del laterizio si generalizza rapidamente in strutture verticali, archi, volte, tetti, pavimenti, lastrici, solai, impiantiti, ecc.
Grazie al mattone si sviluppò un’architettura grandiosa, imponente per masse e originalità di schemi: terme, fori, basiliche, circhi, anfiteatri, templi, acquedotti, colonnati e quant’altro possiamo ancor oggi toccare.
Opus
reticolatum, Villa Adriana, Roma
Declinata la civiltà romana, l’uso del laterizio prosegue nell’alto medioevo: dal mausoleo di Galla Placidia alla Basilica di San Vitale, e poi in avanti fino al Rinascimento, al Barocco, all’Ottocento e persino ai giorni nostri.
La storia della nostra civiltà è tutta di mattoni. L’ordinamento di mattoni nelle pilastrate e nelle murature, non è solo un’esigenza tecnica, è anche un esercizio d’arte. Disposizioni a fascia, a chiave, a coltello, a spina di pesce, a dentatura, a fortezza, a blocco, a croce, ecc., danno una concreta dimostrazione delle potenzialità d’uso del mattone.
Opus spicatum, Mercati Traianei, Roma
Con la caduta di Roma, la tecnica di produzione del laterizio conosce un periodo di decadimento nell’area mediterranea trovando continuazione soprattutto nella cultura bizantina. I produttori di laterizio bizantini riattivano e perfezionarono i cromatismi del laterizio variandone le sfumature modificando la composizione degli impasti d’argilla e i tempi di cottura. Esempio eccellente dell’impiego del laterizio si osserva nella cupola di Santa Sofia a Costantinopoli progettata da Antemio di Tralles e Isidoro il Vecchio. La cupola ebbe però una tormentata vicenda, in quanto dopo una ventina d’anni crollò, principalmente per i due terremoti del 553 e 557, ma anche per una insufficiente azione di contrasto delle forze, generate dalla cupola ad arco ribassato, tendenti a divaricare le complesse strutture di piedritto.
L’incarico della ricostruzione fu affidato a Isidoro il Giovane che progettò una cupola semisferica riducendo di circa il 30% l’azione sui piedritti. Isidoro il Giovane aveva recepito la lezione ‘impartita dall’edificio crollato’, acquisendo la capacità di capire che una cupola a sesto ribassato, generava maggiori azioni inclinate sui piedritti. Anche la cupola di San Vitale a Ravenna (546-548 circa) fu edificata in laterizio, ma con tubi fittili da circa 14 cm di diametro e 60 cm di lunghezza, utilizzati per contenere il peso e le azioni inclinate sui piedritti, dimostrando non solo la capacità di diminuire gli spessori della struttura archivoltata ma la sempre maggiore comprensione della azione ribaltante i piedritti e le modalità di assorbimento. Murature con speroni, contrafforti e tiranti lignei e successivamente in metallo, dimostrano l’apprendimento del comportamento funzionale della struttura archivoltata.
Nel romanico e nel gotico, il laterizio facciavista convive accanto alla pietra in relazione alle culture locali. In Italia, data la larga presenza d’argille, prevale, rispetto al romanico e al gotico d’oltralpe, l’uso del laterizio; esempi eccellenti sono la basilica di Sant’Ambrogio a Milano o il Palazzo Comunale di Siena e la relativa ‘Torre’.
Fra tutte le opere in muratura di laterizio eccelle, nel Quattrocento, la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, del Brunelleschi, voltata a doppia calotta ogivale con la particolare tessitura a spinapesce (Opus spicatum).
Nel Rinascimento, il mattone facciavista spesso lascia il posto a murature intonacate pur essendo ancora utilizzato in opere come il Palazzo Ducale d’Urbino e nelle fortificazioni.
Le prime ‘regole’ scritte per costruire con la muratura iniziano ad apparire nel Rinascimento: Palladio (1574) codifica la regola di diminuire progressivamente lo spessore delle murature con il procedere in altezza, e soprattutto specificava che « il mezo de’ muri di sopra deve cascare a’ piombo al mezo di quelli di sotto; onde tutto il muro pigli forma piramidale », sancendo, in pratica, la regola che nelle murature il carico debba essere applicato il più possibile in maniera assiale per evitare i fenomeni di pressoflessione.
Uno dei primi procedimenti per il proporzionamento dello spessore delle murature è presente nelle opere di Guarino Guarini (1674), il quale propone un metodo lineare per stabilire lo spessore delle murature portanti pari a 1/10 dell’altezza rispetto alle murature del piano più alto, spessore da aumentare progressivamente, scendendo verso il basso, di un quarto di piede.
Nel Settecento, Teofilo Gallacini (1767), avverte ancora il problema della proporzionalità degli spessori, specificando la necessità di diminuirli in progressione all’altezza. Ancora nel Seicento italiano troviamo architetture eccellenti con murature in laterizio facciavista. Per esempio il Borromini, nell’Oratorio dei Filippini a Roma, utilizza magistralmente tale soluzione.
Con la rivoluzione industriale il mattone, a vista come intonacato, diviene uno dei materiali privilegiati per la realizzazione d’edifici residenziali ed industriali.
J. B. de Rondelet (1803) diffonde il criterio della proporzionalità dello spessore delle murature pari a 1/8, 1/10 e 1/12 dell’altezza di interpiano. J. Claudel (1852) nel suo Manuale degli Ingegneri, Architetti e Misuratori ribadisce la validità del procedimento di Rondelet. Il trattato di N. Cavalieri di San Bertolo (1845) è fra i primi ad essere corredato di tabelle sui valori del ‘peso specifico’ e della ‘resistenza assoluta’ degli elementi per murature, elaborati sulla base delle ricerche di Coulomb, Tredgold, Rondelet e altri. Inoltre, San Bertolo intuisce che in una muratura la presenza di un mattone debole diventa punto cruciale di debolezza per tutta la compagine muraria. Inoltre, prescrivendo di ridurre a metà il valore della resistenza minima a compressione, espone con chiarezza il principio del metodo delle tensioni ammissibili (per una muratura in laterizio e buona malta prescrive un ‘carico di sicurezza’ non superiore a 20 kg/cm²).
E. Gauthey (1732-1806) citato da San Bertolo, è fra i primi a compiere rigorose sperimentazioni sulla resistenza dei mattoni. Già nel 1774 nel Journal de phisique, rileva che la resistenza a compressione dei laterizi per murature varia fra 130 e 170 kg/cm², valori più alti di quelli rilevati da J. Rennie che nel 1818 pubblica, nel Philosophycal Transaction, i risultati delle sue ricerche sui mattoni inglesi, trovando che tali mattoni avevano resistenze variabili fra 40 e 120 kg/cm².
L. Vicat, nel 1833, compie invece una serie di sperimentazioni per la valutazione delle resistenze dei mattoni di argilla cruda, individuando in valori non superiori a 30-35 kg/cm², la resistenza massima degli elementi essiccati al sole.
Dalle ricerche in atto, nella seconda metà dell’Ottocento inizia a consolidarsi la conoscenza che la resistenza della muratura non dipende solo da quella dei singoli elementi ma anche e soprattutto dalla malta, e quindi iniziano a comparire tabelle e indicazioni che forniscono la resistenza del setto murario. G. A. Breymann nel suo celebre trattato Baukonstruktionslehere (1884), fa riferimento alle regole lineari di Rondelet da verificare a compressione e pressoflessione secondo i metodi della scienza delle costruzioni.
In Italia il trattato di G. Curioni (1884) riporta accurate tabelle di resistenza dei mattoni in funzione della fornace, con valori variabili da 40 kg/cm² per i mattoni poco cotti albasi, ai 150 kg/cm² per quelli troppo cotti o ferraioli.
Il Manuale dell’Architetto di D. Donghi (1905) propone una tabella dei valori ‘di sicurezza’ della muratura in rapporto alla resistenza dei mattoni: le tensioni ‘di sicurezza’ proposte dal Donghi variano da un minimo 0,75 kg/cm² ad un massimo di 14 kg/cm² nel caso di murature realizzate con mattoni ‘durissimi’.
Attorno alla metà del Novecento iniziano a diffondersi le normative per le costruzioni in muratura, norme che in Italia sono rese attive solo dal 1987. Per esempio, il British Standard Code of Pratice , degli anni Cinquanta e Sessanta imponeva un procedimento per la valutazione della snellezza delle muratura e quindi la verifica rispetto alle tensioni ammissibili. Analogamente le norme tedesche imponevano spessori minimi delle murature e la verifica alle tensioni medesime.
Successivamente la muratura portante in laterizio è spesso offuscata dalla diffusione del telaio in calcestruzzo armato, che relega alla muratura il ruolo di tamponamento.
In Italia, con la ricostruzione del secondo dopoguerra, la muratura portante è utilizzata per edifici residenziali di non oltre tre piani e la successiva normativa degli anni Ottanta, sancisce una metodologia di calcolo semplificata per la muratura portante.
L’uso della muratura portante facciavista, ha ritrovato, alla fine del Novecento, rinnovato interesse in diversi architetti.