La pozzolana
L’opera di ingegneria più prestigiosa dell’antichità è il Pantheon a Roma. Su questo stupefacente monumento, dedicato a tutte le divinità, insiste una volta monolitica a cupola, in calcestruzzo alleggerito, il cui diametro raggiunge l’incredibile luce di 43,3 metri.
Prima che tale opera fosse eretta, nessuno aveva mai osato pensare di progettare una struttura di tale ardimento. Né la maestosa cupola di Hagia Sophia (33 metri circa), né la cupola di San Pietro (circa 42 metri) nonostante la loro imponenza, mostrano tutto il genio di chi la progettò e la capacità di chi la costruì, che solo nei nostri tempi è stato possibile sorpassare, grazie alla tecnica costruttiva del calcestruzzo armato. Come arrivarono i Romani a realizzare opere così prestigiose?
Pantheon di Giovanni Paolo Pannini
Fu l’uso dell’opus Caementitium (anche: opus caementicium), che permise tanta bellezza. La forma dell’elemento da costruire veniva ottenuta mediante una cassaforma costruita in pietre opportunamente posate oppure formata da tavole e travi di legno; gli aggregati venivano accuratamente e prolungatamente mescolati alla malta e con l’indurimento del legante e la sua maturazione, si otteneva un conglomerato assai resistente alla compressione; la cassaforma di legno veniva quindi allontanata, come si fa tutt’oggi, per essere eventualmente riutilizzata. Il termine Opus caementitium indica sia la tecnica, che la qualità del manufatto; la locuzione può essere pertanto tradotta come “costruzione in calcestruzzo” o più genericamente “calcestruzzo romano” (v. anche “materia saracinesca” in Procopio di Cesarea, Bellum Goticum).
Originariamente la tecnica di preparazione del calcestruzzo romano si sviluppò per contenere gli aggravi di spesa e per offrire soluzioni più spedite per la costruzione delle mura delle città, dei granai, delle conserve d’acqua, delle strutture portuali, degli acquedotti ed altro. A partire dalla metà del primo secolo dopo Cristo, col raffinarsi della tecnica dell’Opus Caementitium, abili architetti inventarono nuove strategie progettuali, nel momento in cui impiegarono tale materiale per la costruzione di volte e cupole.
E’ sorprendente scoprire come gli ingegneri romani avessero già sperimentato anche il principio del moderno cemento armato.
In un ipocausto, che veniva, come di consueto, fornito d’acqua calda attraverso le condutture, la cosa più rilevante consiste nel fatto che nella copertura di una di queste canalizzazioni, realizzate in Opus Caementitium, gli archeologi hanno rinvenuto armature di rinforzo in ferro annegate nel conglomerato. Si sono anche ritrovate armature in ferro intrecciate a forma di rete nelle coperture dell’Herculaneum e delle terme di Traiano a Roma.
Sono state condotte indagini sulla resistenza meccanica di questo materiale, indagando su provini provenienti da strutture storiche romane di tutta Europa, prelevati da manufatti appartenenti alle più ricorrenti tipologie costruttive, quali murature e pareti, fondazioni di colonne, volte di copertura, conserve d’acqua e le condutture. I risultati rilevati dall’indagine conducono ad una sorprendente conclusione: i valori di resistenza alla compressione dei vari Opus Caementitium sono compresi tra circa 50 e 400 Kg/cm2. Essi, pertanto, si sovrappongono, in ordine di grandezza, ai valori di resistenza di un calcestruzzo dei nostri tempi. Ma ciò che stupisce maggiormente è che la scelta della granulometria degli inerti avveniva in modo scrupoloso secondo criteri analoghi ai nostri. Dalla ricostruzione di due originarie curve granulometriche si evince come queste potrebbero perfettamente soddisfare anche le attuali prescrizioni normative.
Il minerale di partenza per la preparazione di un Opus Caementitum è sostanzialmente analogo a quello impiegato oggi per la produzione del cemento e della calce grassa. Alla calce ed agli aggregati, venivano aggiunti composti pozzolanici come il tufo vulcanico e la sabbia ottenuta dalla frantumazione dei mattoni cotti (cocciopesto). Il calcestruzzo veniva gettato a strati: e la reiterata battitura e costipazione del materiale consentiva una uniforme trasmissione del carico alla struttura, e per effetto della eguale aderenza tra gli stati, ottenuta dalla compattazione, si otteneva un manufatto d’un solo corpo, con proprietà paragonabili a quelle della pietra.
Si può affermare che la tecnica della preparazione dell’Opus Caementitium abbia svolto un ruolo fondamentale per la stabilità secolare dell’Impero Romano; e la durabilità di queste opere, che possiamo ancora ammirare, sono tuttora una testimonianza di rara capacità costruttiva. Più che l’oltraggio del tempo fu l’uomo ad infierire: gli antichi monumenti, si sa, sono sempre stati privilegiate cave di pietra per il nuovo fare. Ma ciò che rimane di estremamente prezioso degli opus caementitium, e che fu oggetto di studio per molti ricercatori dell’800, è il sapiente uso che i Romani seppero fare della pozzolana.
E’ sufficiente ricordare che dal 1740 al 1760, il Soprintendente alle acque ed ai fiumi della Repubblica di Venezia, Bernardino Mandrini, progettò e condusse i lavori iniziali di quella faraonica opera di difesa della città lagunare, chiamata “i murazzi”. La barriera di macigni, che ancor oggi si può ammirare, fu completata al ritmo di 80 pertiche (160 metri circa) all’anno, murando i conci subacquei con malta di calce e pozzolana. Il Mandrini morì nel 1747 senza vedere l’opera compiuta.