Alla ricerca del colore perduto
I colori sono tutt’altro che un fenomeno marginale. Essi veicolano codici, tabù, pregiudizi cui obbediamo senza saperlo, possiedono significati reconditi che influenzano profondamente il nostro ambiente, i nostri comportamenti, il nostro linguaggio e il nostro immaginario. I colori rivelano il nostro carattere, le nostre tendenze; i colori dicono molto sulle nostre ambivalenze; essi sono formidabili rivelatori dell'evoluzione della nostra mentalità.
Vediamo come la scienza abbia detto la sua, sopravanzando la filosofia: “Onda o corpuscolo? Luce o materia?” Ciononostante ancor oggi ci portiamo dietro quello strano retaggio. L’arte, la pittura, la decorazione, l'architettura, la pubblicità, naturalmente, ma anche i nostri prodotti di consumo, i nostri indumenti, ecc..., tutto è retto da un codice non scritto di cui i colori detengono il segreto.
E’ difficile districarsi nel labirinto simbolico delle tinte. Parlar di colori e cosa assai vaga. Non si lasciano facilmente imprigionare in categorie: quanti sono, del resto? I bambini ne nominano spontaneamente tre; Aristotele ne contava quattro e per uno scherzo di Newton, su cui torneremo, si è decretato che ce ne fossero sette ufficiali. Per me, non ci son santi: ne esistono sei, non di più.
In primo luogo, quel tranquillo blu, prediletto dai nostri contemporanei perché sa farsi amare da tutti. Poi l'orgoglioso rosso, che governa la virtù ed il peccato. Quindi il bianco virginale, quello degli angeli e dei fantasmi, dell'astensione e delle nostre notti senza sonno. Segue il giallo dell’oro, che per lungo tempo è stato segnato dal marchio d'infamia. Viene poi il verde, a sua volta malfamato, traditore e scaltro. Infine, il nero: umile, austero ed elegante.
Poi ci sono i comprimari: viola, rosa, arancio, marrone e, un po’ appartato il grigio.
Ci sono colori molto antichi, che vengono da molto lontano. Prendiamo il Rosso ad esempio. La supremazia del rosso si è imposta a tutto l'Occidente da molto, molto tempo.
E’ un colore che attrae lo sguardo, tanto più che è poco presente in natura. Evidentemente si è valorizzato ciò che si distaccava di più dall'ambiente. Ma c'è un'altra ragione: i pigmenti rossi sono stati disponibili molto presto e si è potuto usarli in pittura e in tintura. Già trentamila anni prima di Cristo l'arte paleolitica adoperava il rosso, ottenuto in particolare a partire dalla manipolazione della terra ocra rossa: si pensi al bestiario delle grotte disseminate fra la penisola Iberica e quella Balcanica. Nel neolitico si è sfruttata la robbia, erba dalle radici tintorie presente nei climi più svariati; poi ci si è serviti di alcuni metalli, come l’ossido di ferro o il solfuro di mercurio. La chimica del rosso è stata dunque molto precoce, e molto efficace. Da qui il successo di questo colore.
Nella Roma imperiale, quello che si ottiene dalla sostanza colorante del murice, una conchiglia rara presente nel Mediterraneo, è riservato all'imperatore e ai condottieri. Nel Medioevo, essendo andata perduta la formula della porpora romana (le colonie di murici sulle coste della Palestina e dell'Egitto sono peraltro in via di estinzione), si ripiega sul chermes, il colorante estratto dalla femmina essiccata del Coccus illicis, insetto diffuso nel bacino del Mediterraneo e in Estremo Oriente. In effetti, la raccolta è laboriosa e la fabbricazione molto costosa, ma il rosso ottenuto è splendido, luminoso, resistente. I signori beneficiano dunque, sempre, di un colore di lusso. I contadini, possono ricorrere alla volgare robbia, che dà una tinta meno splendente. Poco importa se ad occhio nudo la differenza non si nota: l'essenziale sta nella materia e nel prezzo. Socialmente, c'è rosso e rosso! D'altro canto, per l'occhio medievale, lo “smalto” di un oggetto (il suo aspetto opaco o lucente) prevale sulla sua colorazione: un rosso vivo sarà percepito come più vicino ad un blu luminoso che ad un rosso slavato.
Nel Medioevo, i codici simbolici dei colori si rivelano attraverso gli indumenti e l'immaginario. Non nella vita quotidiana, però. Questi codici simbolici hanno conseguenze molto pratiche. Si prendano i tintori: in città, alcuni di loro hanno una licenza per il rosso (con il permesso di tingere anche in giallo e in bianco), altri hanno una licenza per il blu (possono tingere anche in verde e in nero). A Venezia, Milano o Norimberga, gli specialisti del rosso robbia non possono lavorare nemmeno col rosso chermes. Non si esce dal proprio colore, pena finire sotto processo! Coloro che sono dediti al rosso e coloro che sono dediti al blu vivono in strade separate, relegati nei sobborghi perché i loro laboratori impuzzolentiscono tutto, tra loro scoppiano spesso violenti conflitti, si accusano a vicenda d'inquinare i corsi d'acqua. Va detto che il tessile, allora, è la sola vera industria d'Europa, una posta in gioco altissima.
Blu, rosso, bianco, verde, giallo, nero; e poi? Quanti altri colori ci sono? Non domandate all'arcobaleno: ci mostra soltanto ciò che vogliamo vedere. I bambini, che cercano il tesoro ai piedi dei suoi raggi, lo sanno bene: i colori spariscono non appena si cerca di afferrarli, sono soltanto un’illusione.
Dietro i sei colori di base vengono i complementari, le mezze tinte (rosa, marrone, arancio, viola e lo strano grigio) e un corteo infinito di sfumature che non smettiamo d'inventare. La lezione che ne traiamo qui è un paradosso: un colore esiste soltanto perché lo guardiamo. E’ insomma, una pura invenzione della nostra mente.
Abbiamo i sei colori di base, quantomeno così li qualifichiamo tutti. Eppure, ai bambini s'insegna che nell'arcobaleno ci sono sette colori. Ecco qui un altro preconcetto, forse.
Se si domanda ad un bambino molto piccolo quanti colori vede nell'arcobaleno, vi risponderà in genere il verde, il rosso e il giallo. Aristotele ne vedeva quattro. Nel XIII secolo, i dotti dell'università di Oxford arrivavano fino a cinque o sei, non di più. Si dice che, quando Newton definì lo spettro luminoso dell'arcobaleno, avesse individuato a sua volta soltanto sei raggi colorati (viola, blu, verde, giallo, arancio e rosso). Ma, poiché le convenzioni del tempo esigevano sistemi di sette o dodici elementi, egli ne avrebbe aggiunto un settimo, raddoppiando il blu in indaco.
Per la cultura europea, esistono sei colori principali, e sono quelli che evochiamo spontaneamente: blu, rosso, bianco, verde, giallo e nero. La percezione che ne abbiamo può cambiare secondo la luce, secondo il supporto, secondo l'epoca (non si vedevano le stesse cose nell'antichità o nel Medioevo), ma non può cambiare ciò che i colori rappresentano; non la loro identità profonda. Un colore è una categoria dello spirito, un insieme di simboli. Prova ne è che i sei colori di base sono i soli a non avere referenti.
I sei colori di base si definiscono in maniera astratta senza aver bisogno di un riferimento nella natura, al contrario di quelle che vengono chiamate mezze tinte: il viola, il rosa, l'arancio, il marrone; (il grigio è un po’ particolare e va trattato a parte). Quelle quattro mezze tinte devono il loro nome ad un frutto o ad un fiore: il marrone esisteva prima che s'inventasse il termine “marrone”, l'arancio prima del colore arancio, la rosa prima che si parlasse del “rosa” (il latino rosa designa unicamente il fiore). Per indicare il rosa di certi fiori o il petto di un uccello, si parlava di “rosso chiaro” o di “rosso bianco”. Se, in seguito, con l'avvento delle lingue romanze, si sono inventati dei termini specifici, è perché si è avuto bisogno d'incarnare in un nuovo colore dei simboli che non venivano espressi dai sei colori di base. Si pensi al malva di Perkin della metà dell’Ottocento!
Come dicevamo resta il grigio, che si considera a parte, perché ha quasi tutti i caratteri di un vero colore: non ha referenti. Il termine è antico (viene dal germanico grau) e possiede un duplice simbolismo. Per noi, evoca la tristezza, la malinconia, il tedio, la vecchiaia; ma, in un'epoca in cui la vecchiaia non era così deprezzata, rimandava al contrario alla saggezza, alla pienezza, alla conoscenza. Ne ha serbato l'idea d'intelligenza (la materia grigia).
Alla fine del Medioevo, lo si vedeva come l'opposto del nero, dunque simbolo della speranza e della felicità. In realtà, il grigio gode di uno status a parte. Goethe aveva intuito questa singolarità: per lui, il colore che riuniva tutti gli altri non era il bianco, tinta debole, che a suo avviso conteneva poche materie colorate, ma proprio il grigio, che lui definiva colore “medio”. Ciò lo rende più ricco da lavorare; possiede un gran numero di sfumature, autorizza le monocromie più delicate, esalta gli altri colori.
Riassumiamo: sei colori di base e cinque mezze tinte compreso il grigio. Poi iniziano le sfumature: porpora, giada, salmone, ambra, avorio, seguendo con i più fantasiosi. Zucca, tannino di prugna, vento di sabbia, ombra marina, greto cinerino, ecc., fino a completare l’infinita gamma della collezione primavera-estate di qualche casa di moda.
Secondo i testi di ottica, l'occhio umano può distinguere fino a 180, 200 sfumature al massimo. Ciò rende assai discutibile il paragone con la capacità dei computer di esprimersi graficamente in milioni di colori!
Già nel XVIII secolo, nella loro Encyclopédie, Diderot e d'Alembert avevano steso un elenco delle sfumature. Certi termini dell'epoca si basavano sul nome del luogo o della città da cui veniva il colorante. Ma in effetti si deviava subito verso la poesia. Insomma, i confini tra le diverse sfumature non hanno un’esistenza reale. Tutto dipende da chi guarda.
Il fisico ritiene che il colore sia un fenomeno misurabile. In una stanza vuota, egli illuminerà un oggetto colorato, registrerà la lunghezza d'onda e concluderà che c'è un colore. Goethe è di parere opposto: “Un colore, che nessuno guarda, non esiste!” dichiara ripetutamente. E’ un'affermazione forte che sottoscrivo. “Un vestito rosso è ancora rosso, quando nessuno lo guarda?” si domanda Goethe. Ebbene, no! Per me, non c'è colore senza percezione, senza sguardo umano. Siamo noi a fare i colori!