I colori degli edifici
Il colore nell'architettura ebbe vasto sviluppo presso gli antichi Egizi e presso i Greci i cui templi furono completamente ricoperti di ricchi tinteggi tanto all'interno che all'esterno. La terna dei colori rosso, giallo e azzurro fu quasi sempre applicata in tutti gli stili cominciando dalle fastose decorazioni dei templi faraonici, ai più gloriosi periodi dell'arte, dove, con raro equilibrio decorativo, troviamo applicati colori più o meno vivaci nelle costruzioni di tutto il mondo del passato. Talvolta si ha la fortuna di vivere esperienze uniche che vengono da testimonianze come si può trovare in uno dei più fulgidi esempi di decorazione pittorica esterna, che fece dire, a metà del secolo scorso, ad un grande cultore del colore delle città: “Noi non conosciamo alcun'altra opera che sia così adatta a servire come illustrazione dell'arte del colorire, di questo palazzo dell'Alhambra del quale ogni ornato contiene in se stesso una grammatica”.
Particolare di Azulejo dell'Alhambra
In questa stupenda fabbrica moresca, in Granada, i colori dominanti sono il rosso leggermente aranciato, il giallo oro e l’azzurro nelle parti più elevate, l’arancio, il verde ed il porpora in quelle più basse. Ma altri esempi, di altrettanta bellezza policroma, più vicini a noi, li possiamo ammirare nelle logge e nelle biblioteche del Vaticano, a Villa Madama a Roma, nel palazzo del Te a Mantova ed in molti capolavori di Raffaello, di Giulio Romano ed altri grandi artisti..
Villa Madama a Roma
Data l'immensa varietà delle pitture interne, in questo scritto si vuol restringere il campo alle più semplici monocromatiche pitture non figurative (escluso un piccolo cenno alla pittura ad affresco), anche perché non esiste una univoca e soddisfacente trattazione e catalogazione delle pitture murarie interne. In genere le pitture figurative vengono trattate indipendentemente e disgiunte dal contesto dei tinteggi delle facciate esterne: pertanto, dei campi figurativi e dei tinteggi più pregiati, rimandiamo il lettore ad altre letture.
Dall'esame di sezioni sottili, indagini microchimiche e diversi procedimenti di analisi degli elementi metallici, come la spettrometria di assorbimento atomico, fluorescenza, attivazione neutronica ed analisi mineralogica per diffrazione, ecc..., si è potuto stabilire la natura dei pigmenti usati, nel passato più lontano, per tinteggiare le facciate degli edifici storici; e si è potuto stabilire altresì l'esigua quantità di pigmenti usati per “velare” gli stucchi esterni. Le cromatografie e le spettrografie di assorbimento nell'infrarosso, sono valse ai ricercatori a scoprire talune modernità come il verde di cromo o la magnetite nera, ritenute, all'analisi visiva, originari pigmenti antichi da attribuirsi agli Etruschi.
In generale, gli effetti cromatici ritrovati sono da imputarsi alla presenza di minerali naturali come la malachite, la crisocolla, l'atacamite, la calcite, la dolomite e svariate terre ocra a base di ossidi di ferro; e le tinte impiegate sono spesso il risultato della mescolanza dei vari ossidi. La variatissima gamma di colori impiegati nel passato era il frutto d’antiche esperienze e sapienze tramandate di bottega in bottega, che trovava peculiare utilizzo in specifiche aree geografiche, e che infine ne caratterizzava il colore delle città.
I bianchi ottenuti col carbonato di calcio; gli azzurri di lapislazzulo o di ceruleo egiziano (silicato doppio di rame e calcio); il rosso di Sinope; il rosso cinabro (solfuro di mercurio), gli ossidi di ferro (ematite) ed il bisolfuro di arsenico; i gialli a base di ferro o piombo; i verdi a base di carbonato o acetato di rame; i neri ottenuti dal carbone di calcinazione, e qui la lista potrebbe allungarsi a dismisura pur non completando l'immensa gamma di variazioni cromatiche che era vanto d'ogni Maestro conoscere, e che si sviluppava negli infiniti miscugli e nelle più riposte sfumature.
Le terre colorate prescelte venivano macinate lungamente e minuziosamente nel mortaio dai garzoni di bottega, sino a ridurle alla finezza di una polvere impalpabile; venivano poi sapientemente mescolate nella dovuta proporzione; e quindi provato il risultato cromatico mescolandole alla giusta quantità d'acqua per essere poste su di una pietra tufacea ad asciugamento rapido, per verificare immediatamente il grado ed il tono della tinta.
Se per gli affreschi, i colori, diluiti con l'acqua, erano posti direttamente sugli arricci ancora umidi, nei tinteggi monocromatici delle facciate dei palazzi, venivano mescolati a calce spenta opportunamente diluita e stesi a larghe passate, a più mani, con opportuni pennelli. E se nel primo caso gli effetti cromatici delle tinte affrescate sono durate (ed ancora durano) nel tempo, con gli scialbi di calce colorata, la forza delle tinte sembrano aver avuto minor fortuna. Nondimeno, come sempre accade per tutto ciò che è toccato dal tempo, anche i tinteggi a calce hanno assunto, col passar degli anni, espressività propria, che appare in tutta la bellezza delle mille sfumature che si possono apprezzare. Vi è qui da confessare quanto difficile sia per gli artefici d'oggi l'ottenere la freschezza e le trasparenze di quegli antichi tinteggi, effetti non disgiunti da quella inimitabile capacità di scolorire in gradi e toni sovrapposti, che aggiungono pregio al pregio, che i moderni tinteggi, ahimè, non possono offrire.
Le ragioni di questi limiti, ad ottenere i risultati, che ancor nel passato secolo ogni buon pittore sapeva riprodurre, sono dovute a varie cause. Fra queste la prima è da imputarsi ad un progressivo generale indebolimento della sensibilità di molti nella percezione delle sfumature di una tinta in rapporto alla sua freschezza, trasparenza ed intonazione; oggi ognuno sa percepire e definire un colore, mentre pochi sanno veramente valutarne in modo sottile gli infiniti fraseggi che intercorrono fra gradi, toni, accostamenti, pastosità, contrasti, sfumature, velature e tutte quelle caratteristiche pittoriche che in antico erano comuni a tutti coloro che con le tinte avevano dimestichezza. A tal proposito v'è anche da dire che l'accresciuta insensibilità alle gamme più ampie delle tinte murali, che hanno fatto tanto apprezzare i tintori preindustriali, è dovuta proprio ai medesimi tintori del secolo scorso, i quali, sia per ragioni economiche, che per incapacità di rifornirsi di terre naturali, hanno preferito usufruire di colori industriali preconfezionati, indebolendo ‑ e talvolta annullando – la propria determinazione e sensibilità alla preparazione delle tinte; cosicché le nuove mode culturali, spesso appoggiate da fragili indagini storiche, hanno condotto all'uniformità delle tinteggiature murarie di intere città.
A supporto di questa affermazione basterà citare il caso più evidente che ognuno può ammirare. Oggi il Palazzo del Quirinale, in Roma, risplende di un inedito color naturale petrigno, non proprio somigliante all’originario tonachino color aria, che si evince dall’indagine stratigrafica degli intonaci prelevati dai calcinacci di stonacatura. Prima dell’intervento di restauro, come si può vedere in molte fotografie e stampe che lo ricordano, sulle sue superfici esterne accampava un caldo tinteggio color pelle di leone, con cornicioni, marcapiani ed aggetti vari, color foglia morta del tufo giallo del Lazio, tendente al nanchino buio; eppure, il vedutista Van Wittel, nel 1667, dipinse quest'imponente casamento con canalettiana precisione fotografica, evidenziandone i tenuissimi colori ravvivati dal sole del tramonto: bianco marmo per gli aggetti, e bigio‑azzurrino per le campiture maestre, che evocavano il color fosco dell’aria mattutina (da qui il termine color aria).
Indagini stratigrafiche recenti hanno di fatto accertato che il Van Wittel dipinse effettivamente, con eccezionale realismo, quanto gli era dato di vedere, e che i colori del suo dipinto non erano certo il frutto di un sua stravagante fantasia artistica. Sarebbe interessante scoprire quali furono le motivazioni scatenanti, che portarono gli architetti dell'epoca ad un mutamento cromatico (il color pelle di leone) così lontano dall’originario. Probabilmente, nel Settecento, anche in quei luoghi si sentì pesante il passaggio delle malattie sociali, ed i pestilenziali secoli "della calcina" ricoprirono palazzi, chiese e ville, di accecante e caustico biancore che ridusse tutto, con reiterati scialbi sovrapposti, di calce spenta, che col tempo si sono carbonatati, in irripetibili croste marmoree.
All'analisi sulla mutazione della sensibilità al colore dei nostri predecessori dell’Ottocento, va aggiunta anche una motivazione strettamente legata al colore delle materie. La trattatistica classica, la manualistica e vari documenti d'archivio, raccontano di come le medesime mestiche composte con colori di diversa origine, grossolanamente definiti uguali, mescolati con calce di diversa natura, portino infine a sfumature di grado e tono del tutto particolari.
Il giallo Torino, il rosa La Spezia, il persichino veneziano, ritenuti una caratteristica di quelle città, sono tinte prevalentemente uniformi, che dopo la metà del XIX secolo hanno coperto una fittissima gamma di variazioni praticate, con finezza di giudizio e percezione, sino ad allora.
Un esempio su tutti: nei primi decenni dell'800 il Consiglio degli edili di Torino, in accordo con la locale Commissione dell'Ornato, definisce ed appronta una teoria di campionature di tinte da applicarsi secondo precisi criteri e concessioni sulle facciate delle città. Tali proposte cromatiche andavano dal bianco candido al rosso Venezia, passando per i gialli brutti, il bigio aria, il grigio marmo, il persichino, ecc..
La qualità e la quantità di terre da adoperarsi per ottenere l'esatta tonalità d'ogni tinta sono puntualmente descritte in ricettari, che a quel tempo erano messi a disposizione d'ogni artiere che ne avesse fatto richiesta. Dalla lettura dei prontuari moderni si evince che non sia determinante il tipo di calce da impiegarsi nelle mescole; sta di fatto, però, che non tutte le calci sono bianche, e l'uso di una piuttosto che di un'altra calce porta a risultati, per un occhio avvezzo al giudizio, sensibilmente ma decisamente diversi. La calce d'Albettone, detta dal Palladio e dallo Scamozzi, la livida Albazzana descritta dal Cataneo e dal Branca, e le molte specie di calce così minuziosamente e puntigliosamente descritte dallo Juvara come la color avorio di Casale, la giallo‑rossastra di Ponte Stura, la nocciola‑rosato di Superga e la bigio‑aranciato di Lauriano, queste calci ‑ si diceva ‑ non possono con il loro colore naturale non intervenire a modificare il sapore della tinta, che si percepisce nella trasparenza delle velature. Sicché, rimanendo nell'esempio, che coinvolge la gamma cromatica delle diverse calci del torinese, ciò che vien chiamato giallo di Torino, non può essere un unico colore che induce, in chiunque guardi, la medesima sensazione: il colore assumerà di volta in volta sfumature e tono secondo che sia questa o quella calce a tener la tinta. Ecco allora che i sette toni di giallo, scelti e proposti per quella città: molassa, paglierino, nanchino, limoncino, canarino, giallo verdicchio e giallo oliva, proposti in tre diversi gradi, chiaro, normale e carico, esprimevano ben ventuno sfumature di tinta, le quali, se sottoposte al viraggio del colori avorio, giallo‑rossastro, nocciola‑rosato e bigio‑aranciato delle già citate calci, che si cavavano e calcinavano nel medesimo territorio, diventavano ben ottantaquattro sensazioni di giallo che il disabituato occhio moderno difficilmente potrebbe apprezzare. E quanto detto vale anche per i pigmenti.
Le ricette per la composizione delle tinte erano ben note sin dalla più remota antichità, ma localmente ogni singolo pigmento veniva tradizionalmente manipolato, arricchendo la gamma delle sfumature delle cromie locali. La notissima Terra di Siena, per esempio, pigmentata da ossidi di ferro, è gialla se usata al naturale, ed assume via via sfumature che muovono dal bruno al rosso, secondo la temperatura di calcinazione, generalmente aumentando di intensità con l'aumentare della temperatura di cottura. Ma oltre alla tecnica di mutazione del colore delle Terre mediante la calcinazione degli ossidi naturali, generalmente ben conosciuta, ogni artista aggiungeva in ogni sua opera personalissime imprevedibili mutazioni, così come storicamente si ricorda fosse avvenuto a Venezia alla vista di alcune opere figurative che il Giorgione dipinse sulle facciate del proprio e di altri ricchi palazzi patrizi. Si disse di "gialli mai visti prima"; e così si potrebbe continuare col dire sul Verde Veronese ed altri notissimi colori, ma su ciò non ci dilunghiamo.
Chiunque, alla luce di quanto detto, può verificare i differenti risultati che si ottengono mescolando colori ben conosciuti con differenti tipi di calce.
Si provi col giallo molassa: ovvero otto parti di Bianco di Zinco e due parti di terra gialla di Siena mescolate a calce albazzana forte color avorio; confrontate poi con la stessa tinta preparata con i medesimi pigmenti uniti nella medesima proporzione e mescolati a calce dolce bianca, vedrete la seconda troppo vivace rispetto alla prima, la quale, per il color vellutato dell'albazzana, si mostra più morbida e calda. Ciò vale anche per il giallo brutto (che nel torinese si riconosce come color nanchino): ossia sei parti di bianco di Cina sporcate con una punta di nero, una parte di ocra gialla ed un mezzo punto di ocra rossa, il tutto mescolato con calce forte d'Albettone, color giallino‑rosato. L'effetto che s’ottiene è molto più appagante di ciò che cromaticamente risulta dalla medesima tinta mescolata con calce grassa bianca. Seppoi, per tornare ai colori di Torino, dovessimo riproporre il color foglia morta, ottenuto dalla mescolanza dell'ocra rossa e del minio aranciato, e per avventura dovessimo diluire la tinta in una soluzione di candidissimo latte di calce dolce magnesiaca, piuttosto che in un latte di calce forte di Casale dal tenue color giallo‑avorio, allora i risultati sarebbero evidenti anche al più sprovveduto degli osservatori: le due tinte avrebbero tono così lontano, l'una dall'altra, da sembrar diverse.
Non di minor importanza è la questione dei fondi. Il colore dell'intonaco è determinante ai fini del risultato cromatico finale. Se nel parlar di scialbi di calce non si può non elogiarne "le trasparenze", sarà buona cosa considerare anche ciò che "traspare". Oggi sono rari i tinteggi che esprimono i loro toni cromatici rendendo all'occhio che guarda, il colore naturale dell'intonaco di finitura, mediato dal velo di pigmento che lo ricopre.
Dall'avvento della civiltà del cemento, gli intonaci sono quasi tutti bigi; ragion per cui è ben difficile che si possa ottenere alcun effetto di velatura che possa dare una qualche emozione. Il grigio si può dire sia complementare a qualsiasi altro colore, e perciò la tinta di qualsivoglia velatura, stesa su di un intonaco cementizio, tenderebbe a smortire e bruttire, essendo neutralizzata dal color bigio della sottostante materia.
Ben altro effetto s'ottiene allorché il fondo è composto con malte di sabbie colorate e calcine forti dai tenui colori naturali. Quanto detto per le differenze dei risultati che s'ottengono mescolando le medesime mestiche di colore con calcine di diverso colore, vale anche per le velature.
Generalmente i fondi di calce bianca vivacizzano ed esaltano le tinte rendendole più brillanti; per contro gli intonaci dai tenui colori neutri naturali tendono ad ammorbidire le trasparenze, rendendo effetti più dolci e vellutati. Sarebbe improponibile, pertanto, una restaurazione delle tinte originarie, se agli ingredienti, di per sé già difficili da ritrovare, non aggiungessimo anche quella resuscitata sensibilità, senza la quale talune opere sarebbero irripetibili. Probabilmente questa è la ragione per cui già dall'800 le strade‑corridoio delle città ideali cominciarono ad assumere monotone e spesso mortificanti monocromatiche regolarità; ed è fors'anche questa la ragione per cui oggi, davanti ad un'opera difficilmente ricostruibile con tutta la sua “logora” sofisticata finezza, si persevera a stonacare vandalicamente, con arretrato pregiudizio, per rimanere poi confusi e pieni di incertezze, delusi dai sordi e piatti risultati, che un nuovo intonaco, ben livellato e opacamente dipinto, concede.
Non v'è peggior forma di daltonismo che'l cattivo gusto.