La tecnica del colore
Il termine "tecnica del colore", attribuita a chi è preposto alla scelta ed all'uso dei colori per il compimento del piano colorico delle città, credo non sia del tutto appropriato.
Oggidì, per tecnica del colore dovrebbe intendersi più che mai l'arte di fabbricarli, che quella d'adoperarli; per quest'ultima vale, con miglior significato, “l'arte del colorire”. Perciò la vera tecnica del colore è l'operazione cosciente intrapresa dall'industria, che con applicazioni artigianali riesce ancora a riprodurre materie e mestiche come si faceva in antico.
Purtroppo, la crescente innovazione industriale e la necessità per alcuni di conquistare a tutti i costi sempre più vaste aree di mercato, hanno ridotto l'artista a servirsi dal commercio di materiali di cui non conosce né la composizione né il risultato. Solo a lavoro finito, dopo tardive e talvolta amare esperienze, egli riesce a comprendere quali sarebbero state le giuste scelte e quali i migliori modi per condurre il lavoro appena terminato. Ciò di cui possono disporre i tecnici ed i progettisti è la "tecnica del colorire" quindi; essi dovranno diventare maestri nell'arte d'impiegare i colori, la quale per necessità, comprende tutte le operazioni necessarie alla scelta degli intonaci di fondo, la mescolanza fra le basi, l'uso dei vari ingredienti, semplici o composti, alla composizione della tavolozza per la singola facciata ed il fraseggio d'insieme per l'intera scena urbana.
Trattare il tema sull'intonazione dei colori in questo modesto manuale, è cosa superiore all'importanza del manuale stesso e perciò mi limiterò ad indicare le poche norme che i novizi è giusto apprendano a beneficio della loro conoscenza sull'arte del colorire.
Terminato un lavoro si potrebbero riscontrare discordanze o stonazioni derivate da un difetto di grado o da un difetto di colore delle tinte. In tal caso le riflessioni da farsi sono:
a) Potrebbe mancare il giusto rapporto, o salto, o grado fra le tinte in modo da portare ad uno squilibrio d'insieme.
b) Si sono forse adoperate delle tinte di colore contrastante o sgradite all'occhio di chi guarda. Può succedere che l'osservatore, deviato dalla discordanza di una o più tinte, non può abbracciare, comprendere ed apprezzare, il complesso del lavoro, perché la presenza anche d'una sola tinta che sia di colore eccessivamente intenso, lo distrae dal giudizio complessivo.
Si rifletta su quanto segue:
- Quando si vuol intervenire con più tinte, è bene evitare i forti sbalzi, anzi si dovrà aver cura che i salti fra un tono di tinta e l'altro siano graduali.
Si riduca preferibilmente la gamma dei colori a 2 o 3 tinte principali, e all'occorrenza, si potranno produrre anche tanti mezzi gradi fra loro, quanti ne servono, specialmente quando si vogliono ottenere sfumature ed impasti dei diversi toni e gradi composti insieme.
- Nella composizione della gradazione delle tinte ed i loro mezzi gradi, bisognerà mantenere un giusto rapporto, avvicinandosi alle gradazioni più scure con toni sempre più caldi, in modo da ottenere alla distanza un effetto di maggior vaporosità e pastosità.
- Le tinte calde, accanto alle campiture scure, correggono quell'effetto ottico per il quale i colori coll'aumentare della distanza sembra anneriscano e diventino cupi.
A riprova di quanto detto, s'osservi da lontano una facciata color “rosso Venezia” con i cornicioni e le cornici delle finestre tinte di bianco. Il rosso s'incupisce oltremodo e il bianco delle cornici risplende sempre di più; per contro se i cornicioni ed i riquadri dei fori son tinteggiati con colori caldi che tengono del giallo nella combinazione, si vedrà sorprendentemente il rosso mantenere il proprio tono e grado.
- Quando si usano diverse tinte di diversi colori, onde evitare che qualcuna sfugga all'equilibrio cercato, bisogna far in modo che ognuna di esse partecipi alla presenza delle altre senza che nessuna sposti il tono delle tinte vicine. Ciò va particolarmente curato quando si debbono adoperate colori decisi e puri.
- Un giallo ed un rosso a contatto con un celeste o blu non ci potranno mai stare; sarà necessario accostarvi una terza tinta che con i due primi abbia affinità, o un colore semplice e puro che vada a dividerne il contrasto.
- Per conseguire effetti sicuri, bisogna tener conto anche dei gradi tonali dei singoli colori e cioè: se fra due colori in contrasto v'è forte differenza di grado, il terzo colore da sposare ai primi due dovrà avere un grado ad essi equidistante. Se invece fra i primi due v'è eguaglianza di tono, anche il terzo dovrà avere egual tono.
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Oppure, fra due colori in contrasto si potrà associare un colore che col suo
grado ed il suo tono, giaccia mediamente fra i due; se ciò fosse di difficile
attuazione si risolva preparando una terza tinta che sia più chiara del chiaro
o più scura dello scuro di tanto quanta è la differenza di grado fra i due
primi colori. Infine, se i due primi si equivalgono nel grado, il terzo
dev'essere a loro uguale.
E' bene tener sempre presente, in tutti i casi, l'effetto dei colori freddi e dei colori caldi, posti accanto gli uni agli altri, per conoscerne l'effetto correttivo che da essi procede.
L'intonazione dell'insieme parte dalla scelta della tinta madre o la tinta principale dei fondi su cui si lavora, i quali potranno essere presi come punto di riferimento come grado e come colore.
Sulla base della scelta operata si proceda a comporre le altre tinte nei rapporti di salto e colore voluti dalla sensibilità intuitiva, o mostrate in un campione o bozzetto; e quindi si mettano a prova in bottega, su un supporto trasportabile, o più immediatamente si faccia una prova sulla pietra di paragone.
La pietra di paragone è una specie di sasso, ovvero un estratto minerale, che ha la prerogativa di assorbire le tinte sopra esso applicate e renderle essiccate immediatamente; così si ha modo di verificare l'effetto che queste faranno sulle superfici a cui sono destinate senza l'obbligo d'attendere che i campioni di tinta s'asciughino.
Si osservino le campionature a debita distanza in modo che l'occhio pratico possa rilevare e correggere eventuali dissonanze o discordanze fra i colori; l'inesperto avrà in tal modo la possibilità d'osservare a lungo e riprovar più volte, sinché si sentirà sicuro del fatto suo, prima di cominciare i lavori, evitando così nuovi errori e costosi rifacimenti.
Osservando il procedere del lavoro, nel caso si riscontrassero lievi disaccordi fra le varie tinte impiegate, senza peraltro identificarne una particolarmente stonata, per trovarne la causa, bisognerà prima analizzare tutti i rapporti che corrono fra le diverse tinte e quindi trovare il rimedio. E non sempre questo arriva così tempestivamente come vorremmo.
‑ Lievi difetti possono derivare dalla troppa luminosità della tinta madre che copre le campiture più ampie. Cosa poco pratica quando questa viene messa in contrasto con le tinte più tenui di contorno. Di conseguenza, quest’ultime, essendo con la prima un po' in contrasto, nel giudizio totale, sembreranno loro la causa del difetto osservato e non la tinta di campo.
‑ Succede anche, che una delle tinte usate, sebbene perfettamente intonata alle altre, venga troppo estesamente adoperata coprendo larghi spazi, così da primeggiare sulla tinta madre, distruggendo l'equilibrio della composizione.
Anche il contrario può portare allo stesso difetto; il poco uso di una tinta, che per la sua qualità e grado avrebbe dovuto armonizzare con le altre, porta ad un impoverimento dell'insieme.
‑ Non ultimo, e forse questo è il caso più frequente, ne può mancare una che con la sua presenza potrebbe completare l'armonia e portare nella varietà un equilibrio gradevole di pastosità intonata e festosa. Per poter giudicare esattamente quale sia la causa vera dei lievi disaccordi che rileviamo fra le tinte scelte, è necessario che sin dalle prime prove fatte su campioni mobili, le tinte siano disposte fra loro con lo stesso criterio col quale verranno disposte sul lavoro da eseguirsi. L'osservazione va ripetuta più volte a piccoli intervalli ed a varie distanze.
‑ Messe in opera le tinte, si osservi sin dall'inizio semmai ve ne fosse qualcuna che riesca un po' grave e pesante. Eventualmente ve ne fosse una, si unisca ad essa un po' della tinta della madre, oppure, se più conveniente, s'aggiunga alla tinta madre un po' della tinta che primeggia, in modo da mitigare l'effetto di contrasto.
‑ Può succedere però che l'aggiunta della terza tinta porti stonatura sia alla seconda che alla madre; in tal caso si diminuisca il disaccordo fra la seconda e la terza tinta dando all'una un po' dell'altra.
‑ Se vi fosse un eccesso della vastità della superficie dipinta con una tinta, pur in equilibrio ed accordo con tutte le altre, e questa sua invasione non si potesse più correggere, converrà, con tutti i mezzi conosciuti cambiare l'effetto d'insieme adattando su quelle campiture dei motivi o riquadrature della stessa tinta della madre. Oppure, non desiderando di sconvolgere la composizione, si potrà inventare una nuova tinta con la quale eseguire delle filettature da apporsi a mo' d'ornamento, col secondo scopo di ridurre all'occhio la vastità delle campiture che stonano.
‑ Ai principianti consiglio comunque di non stendersi immediatamente a provare a dipingere una facciata con più di due tinte.
I cornicioni, le cornici delle finestre, le paraste ed eventualmente i finti conci bugnati, vengano dipinti con una tinta color delle pietre naturali. Non si può sbagliare: tutto ciò che è in rilievo abbia un color neutro ed omogeneo e sia lavorato a fino ma non lucido. Le superfici verticali piane, siano dipinte con un colore caldo se le finte pietre ad esso vicino tengono nella loro tinta il giallo od il rosso. Per contro se le finte pietre fossero in tinta fredda allora anche la tinta madre dovrà tendere piuttosto al freddo.
Come primo esercizio si provi, per le facciate, un color pietra, neutro, ottenuto col bianco il giallo Siena e il nero terra di Cipro. Un siffatto colore dovrà esser tenue e caldo.
Per gli elementi aggettanti, come i cornicioni, i riquadri dei fori ed altro, si provi una commistione leggera, di grado più chiara della tinta madre, composta con il bianco, il giallo di cromo, e una punta di terra d'ombra fredda.
I verdi verzini e gli azzurri acquamarina, delle campiture maggiori, dovranno intendersi come tinte neutre, e pertanto ben si sposeranno con i toni caldi del giallo foglia morta o il color tufo delle strutture aggettanti.
Con l'osservanza di quel po' che ho potuto suggerire, specie nel rapporto fra i colori, e con la possibilità di attingere alle poche formulazioni di tinte che sono messe a disposizione in questo manuale, credo che gli addetti ai lavori potranno affinare la loro sensibilità e rafforzare il loro innato intuito con l'uso della pratica.
Teoria e pratica, assieme, porteranno colui che ne conosce le regole, ad adoperare i colori in modo da accordarli nella composizione della sua "musica del colore", come un musicista riesce con le note a dare la "colorazione dei suoni".
Una riflessione
Nel restauro tipologico, mediante il tinteggio delle superfici, spesso si prediligono gli aspetti creativi, anche quando l’intervento si esprime in un contesto storico e artistico fortemente caratterizzato da linee che appartengono al passato. L’intento dell’architetto progettista si muove spesso verso la trasformazione creativa dell’esistente, e molto spesso gli intonaci sono considerati il veicolo per esternare tale creatività. Realizzati con cromie arbitrarie, con finiture superficiali prevaricanti, con morfologie incongrue, sempre realizzate a scapito degli intonaci esistenti, magari in buone condizioni, i piani tinteggiati sono l’esito ultimo di un progetto fortemente disgiunto dal contesto culturale ed artistico, il quale denuncia l’insufficienza dell’opera di recupero.
È infatti oggi diffusissima un’idea secondo la quale si ritiene che non sia possibile esprimere progettualità, fantasia e autentico spirito creativo, senza modificare le cromie esistenti. Vi è un malinteso senso della continuità storica per la quale le trasformazioni, di cui sono stati oggetto nel tempo gli edifici, giustificano attualmente ulteriori variazioni, dimenticando che proprio l’autonomia e l’arbitrio hanno ribaltato radicalmente, sin dalla fine del Settecento, il nostro rapporto con la storia e l’antico.
Conservazione, restauro, ricerca storica, rilievo, giudizio di valore ecc., sono termini che da sempre hanno connotato la riflessione dei restauratori ed il loro sforzo intellettuale e che purtroppo, sotto vari aspetti, tendono a perdere di significato. L’arbitrio creativo è ovviamente più invasivo laddove si tratta di recuperare la coloritura di una superficie storica; e sono ancora gli intonaci e le loro finiture a soffrirne, sia per ciò che attiene alle tecnologie applicate, sia, ahimè, per ciò che attiene ai problemi che una corretta applicazione comporta.
Un intervento, alternativo alla tradizionale sostituzione degli intonaci, dovrebbe prevedere la pulitura, il consolidamento, il rappezzo delle porzioni esistenti e la creazione nelle lacune di un nuovo intonaco attentamente studiato e simile per composizione a quello già esistente. E semmai fosse giustificato il rifacimento di un nuovo intonaco, questo dovrebbe essere analogo a quello originario, e comunque sempre compatibile in termini di elasticità, flessibilità, traspirabilità e longevità, e mai scelto per fattori esclusivamente stilistici, filologici o storici.
Per quanto attiene agli
intonaci dipinti, in pratica ciò si traduce nel rispetto e nella
conservazione anche di quelli che storicamente non risalgono alle origini
dell’edificio ma sono più recenti, salvo quando sono funzionalmente
dannosi o ne pregiudicano la durata del loro permanere.
Una speciale attenzione andrebbe rivolta anche alle testimonianze di cultura materiale che sugli edifici ancora sopravvivono; e ciò si esprime mantenendo, senza riserve o ripensamenti, i componenti materici e tecnici delle varie stratificazioni: in questo caso la scelta conservativa è un obbligo. Un esempio su tutti: l’intonaco ‘a terrazzetto’, costituito da cocciopesto in grana grossa, scaglie di pietra d’Istria e calce aerea, è testimonianza di una cultura tecnica e di capacità costruttive specifiche di un’area geografica e di un ambito culturale molto particolari. Esso va indubbiamente risarcito e mantenuto.
Demolire un intonaco di cocciopesto, per poi ricostruirlo con malte cementizie, solo perché non se ne conosce né la storia né la funzione, ha sempre l’effetto di condurre al veloce degrado delle murature. Si deve capire che oltre alla perdita dell’identità del monumento, va perduta anche l’occasione che avrebbe potuto migliorare le nostre conoscenze; cosa, questa, che potrebbe talvolta costituire l’unico vero senso culturale del nostro intervento. Un’indagine di laboratorio scientifico e tecnologicoartigianale andrebbe sempre condotta, pur accettandone i limiti, avendo per iscopo di scoprire cosa i materiali originari, al di là della loro presenza, portano con sé in termini di sapienza empirica.
Sull’importanza ed i pericoli della memoria orale, esiste una vasta letteratura: la memoria di regole operative è ancora patrimonio di artieri, che sanno ancor oggi scegliere materie preparate alla vecchia maniera, o sono ancora patrimonio dei veri Mastri tradizionali. Poco si sa, per contro, sul come si possa stabilire in un artigiano tradizionale quanto provenga da una trasmissione ininterrotta di conoscenze, e quanto dipenda invece da contaminazioni più recenti dovute al fatto che egli stesso adoperi continuamente materiali e tecniche sempre rinnovate. D’altronde non si può che lodare l’artigiano tradizionale che prenda quanto ci può essere di buono nelle innovazioni, come si faceva peraltro anche nelle Scuole del passato; e altri pochi che si applicano veramente con le Regole delle vecchie botteghe, pur non essendo oggi dovutamente riconosciuti e valorizzati, sono certamente quelli che posseggono le conoscenze meno inquinate.
Anche la lettura dei manuali ottocenteschi potrebbe essere di una qualche utilità. Basta tener presente che negli ultimi cent’anni circa, essi mescolano informazioni d’origine empirica con altre di provenienza scientifica. In origine, le fonti letterarie d’insegnamento, non erano scritte da veri e propri artigiani, ma da pratici o eruditi appassionati delle creazioni manuali. E dal momento quindi che lo scrittore era spesso un osservatore, la manualità di certe operazioni non poteva essere tradotta in forma scritta in modo tale da essere appresa senza maestro. Le informazioni più importanti dei manuali si trovano in realtà nelle molte citazioni e nelle fredde formule più che nella pratica applicativa.
I capitolari d’intonacazione e tinteggio, pertanto, raramente parlano dei materiali e delle tecniche di lavorazione, se non d’apprezzamenti estetici finali, osservabili solo nel momento storico in cui i materiali medesimi sono stati applicati. In questa documentazione d’archivio vengono invece usati nomi che distinguono chiaramente i vari tipi di rivestimento, usati separati o combinati; nomi il cui significato è caduto ormai nell’oblio, o è semplicemente cambiato nella terminologia di un processo di produzione moderna assai più semplificata. Uno sforzo mirato a confrontare ciò che viene insegnato nella manualistica d’epocache ai più sembrano insignificanti informazioni e le analisi delle croste sopravvissute sulle facciate, talvolta porta a notevoli progressi.
Spesso il piano del colore di una città, trova il suo riferimento metodologico nella volontà di razionalizzare la prassi di ritinteggiatura dei prospetti degli edifici urbani, sulla base di un lavoro d’archivio impostato sulla puntigliosa ricerca di documenti che parlino esclusivamente di colore, trascurando tutti gli altri contributi che non sembrano suggerire alcun elemento creativo. E la loro interpretazione è successivamente fondata sul presupposto ingenuo d’uno sviluppo meccanicistico, dei criteri di colorazione della città, senza alcun dubbio o incertezza di sorta.
Usualmente, il periodo cui si intende far riferimento e che è eletto a modello per la pianificazione dell’ ‘originario’ colore della città, è quello ottocentesco, nel corso del quale viene attuato sistematicamente e rigorosamente il controllo degli ampliamenti della città e delle relative tinteggiature proposte dalle varie Commissioni dell’Ornato. A questa ricerca, fondata sul presupposto che in quel periodo avesse preso forma l’unica ed imprescindibile immagine euritmica della città, si affianca l’intento di elaborare gli strumenti operativi che consentano all’amministrazione di attuare il controllo delle nuove tinteggiature.
Ma quest’operazione porta inevitabilmente ad un inconveniente di non scarsa rilevanza. Infatti, l’esigenza operativa di dover dare una risposta immediatain base a domande di tinteggiatura casuali ed imprevedibili a decoratori, il più delle volte estranei ad un concetto di restauro correttamente inteso, non consente purtroppo, come sarebbe invece più logico, di raggiungere i risultati, che le indagini pre-progettuali condotte in sito, si aspettavano.
Succede talvolta che i colori ‘nanchino’, ‘molassa’, ‘persichino’, ‘rosa La Spezia’, ‘giallo brutto’, ‘foglia morta’ e centinaia d’altri, facilmente ritrovabili nella manualistica ottocentesca e nei capitolari delle Commissioni d’epoca, vengano interpretati in modo del tutto personale ed applicati in modo sommario ed inadeguato, attingendo esclusivamente dall’indicazione letteraria contenuta nei documenti d’archivio ed eseguiti non sempre correttamente con materiali impropri da un decoratore occasionale, del tutto innocente della ‘Regola dell’Arte’; il che dà la misura della inadeguatezza delle informazioni a disposizione, che possono mettere in serio pericolo l’intera operazione.
Inoltre, la cromia d’ogni diversa tinta è formulata basandosi unicamente sul nome attribuito nei documenti; e con questa vengono quindi realizzati i ‘Modelli di tinte’ e la ‘Tavolozza dei colori’, ridotti a campionario, il quale è proposto a tutti i produttori di materiali destinati alla manutenzione delle facciate.
Naturalmente, questo primo tentativo di razionalizzazione della tinteggiatura delle facciate delle nostre città, procede attraverso un passaggio diretto: dai dati contenuti nei documenti d’archivio alla ‘tavolozza dei colori’ teorica; dalla tavolozza alla sua applicazione pratica; dalla sua applicazione pratica alla conseguente estensione su scala urbana. Ciò non pretende certo di identificarsi ex abrupto con il ‘restauro scientifico’ delle facciate, ma mira unicamente ad arginare anzitempo gli effetti più disastrosi costituiti dalle tinteggiature selvagge, in modo da ricondurre, pragmaticamente e per gradi successivi, l’operazione di ritinteggiatura nell’alveo di una corretta interpretazione.
Lo strumento di visualizzazione dei modelli di colorazione delle vie e delle piazze principali della città, elaborato anche in base ad alcuni suggerimenti di carattere storico, è definito ‘mappa cromatica’. Si prescrive che le nuove tinte siano genericamente realizzate a base di calce, senza approfondire l’aspetto tecnologico-applicativo e le caratteristiche specifiche dei materiali appartenenti alla tradizione costruttiva, che hanno precise regole di preparazione, applicazione e rifinitura.
I risultati, infatti, mettono in luce la scarsissima considerazione per la materialità degli elementi originari. Ancora un esempio: abbattere una solida crosta signina dalla facciata d’una fabbrica medievale, e riproporla con un intonaco cementizio di dozzina, premiscelato, applicato meccanicamente, e tinteggiato con larghe pennellate di silicato di potassio color rosa a memoria del colore della materia appena abbattuta è cosa insensata quanto miseramente e drammaticamente lontana dal concetto di tradizione e Regola dell’Arte, nel vero senso filologico.
Cosa rimane della Regola tramandata? Che ne è dell’insegnamento che si legge nella materia e nel gesto di chi l’ha applicata? Ed infine: come possono le nuove materie competere con le originarie in termini di longevità, funzionalità, capacità di difesa delle strutture e bellezza per naturale vetustà?
Una particolare fase del Piano del Colore, oggi poco praticata, prevedrebbe l’annotazione della scheda colore con le astrazioni cromatiche (col sistema Munsell), degli elementi architettonici delle strutture murarie petrigne, che non sono mai state dipinte e che col colore naturale della loro materia danno impronta cromatica al paesaggio locale.
Procedendo in questo modo si crea, inoltre, la cosiddetta Tavolozza dei colori, mettendo in relazione i colori con le tecniche e i tipi di colorazione, che si possono ottenere tramite tinteggio o l’uso sapiente delle calci e le sabbie locali, che connotano il naturale colore della materia.
Vanno avvertiti i progettisti dei Piani del Colore, che è sempre latente la pretensione di accedere al progetto e al cantiere di restauro, senza considerare la teoria e la prassi disciplinare con le loro sedimentazioni culturali accumulatisi nel molto tempo trascorso.
Ogni restauratore del colore non dovrebbe considerare esclusivamente la superficie cromatica, che tutto copre, senza porre alcuna attenzione per lo scheletro strutturale di supporto sottostante. Non si può, nel riproporre un tinteggio o una malta di sabbie colorate, escludere gli altri elementi architettonici intrinsecamente inscindibili: intonaco, rinzaffo, ricomposizione della struttura muraria, consolidamento, forme di degrado e quant’altro si presenti.
Per ultimo, ma non meno importante, andrebbe fatta una considerazione sulla consapevolezza delle scelte critiche dei contributi teorici e operativi, su problemi quali l’autenticità, il falso, la copia, il periodo storico, e sul peso che questi temi possono avere nel progetto di restauro.
La scelta dell’epoca storica talvolta è ingenuamente arbitraria. A prescindere dall’era storica d’appartenenza dell’edificio, di solito ci si fa sedurre da documenti ottocenteschi d’archivio. Ma perché privilegiare l’Ottocento e non il Settecento, per esempio? Oppure, perché non preferire la realtà attuale con tutte le sue stratificazioni più o meno ‘storiche’? Ed infine, perché non pensare che non si possa progettare il piano del non colore di un borgo medievale? Perché si dovrebbe necessariamente tinteggiare un manufatto quando questo non lo è mai stato ed ha ostentato sin da quando fu costruito, il colore naturale delle pietre e delle malte che lo hanno strutturato?
Questa è un’interessante materia da approfondire.