Le tinte a calce
Si trovano in commercio diversi tipi di calce che teoricamente potrebbero essere adatte alla tinteggiatura esterna degli edifici. Si potrebbe usare la calce appena spenta fornita in grassello, e si potrebbe lasciar stemperare in acqua, per almeno 24 ore, della calce idrata in polvere per ottenere la pasta che serve a preparare le nostre tinte: ma niente è più sicuro e più affidabile che la grassa ed untuosa calce che si ottiene lasciando macerare nelle fosse il grassello per lungo tempo.
L'acqua in cui si lascia macerar la calce dovrà necessariamente essere immune da qualsiasi ingrediente organico deliquescente, né dovrà contenere acidi, sali, alcali o altre sostanze nocive alla perfetta maturazione del grassello. L'impurità dell'acqua è spesse volte causa dell'incompattezza delle tinte, e dell'alterazione dei colori in essa mescolati, e di macchie salnitrose o di cloro nella superficie.
Ai molti artigiani che spesso mi chiedono come si fa a distinguere una buona calce da una scadente non mi resta che consigliarli di affidarsi alle analisi di laboratorio dei materiali che acquistano e che essi dovrebbero pretendere dai loro fornitori. Dico ciò a beneficio della chiarezza nel linguaggio e nei termini scientifici che devono caratterizzare il prodotto piuttosto che cercar credito in argomenti che confondono e che sminuiscono la capacità di scelta degli operatori.
Un esempio. Troppe volte sento taluni vantare di poter disporre di calce "pura al 99,9%", dacché il grassello proposto è ricavato dalla cottura di purissimi calcari. Niente di più errato. E' come dire che noi disponiamo del migliore dei vini solo perché l'uva da cui questi sono ricavati è di primissima ed indiscussa qualità.
L'uva va colta e pigiata; il mosto va lasciato decantare, va travasato, va filtrato, va talvolta corretto, e talvolta tagliato prima di diventare vino. A volte il processo porta ad ottenere un ottimo vino, a volte, ahimè, lo si deve aiutare per essere accettabile al palato.
Ciò vale anche per la calce. Pur disponendo di purissimi calcari, come la Pietra d'Istria, che sfiorano quasi il 100% del contenuto in carbonato di calcio, non è garantito che la calce da essi ottenuta sia altrettanto purissima.
Dalla più perfetta uva non sempre s'ottiene il migliore dei vini. Pertanto, pur essendo interessante conoscere come i calcari sono stati cotti, a che temperatura sono stati calcinati, quale combustibile è stato adoperato, come la calce viva è stata spenta, quale sia stato il periodo di macerazione, ciò che soprattutto più mi interessa sapere è: dopo tanto lavoro e travaglio, quanta calce mi vien realmente consegnata, in quella pasta bianca, al momento dell'acquisto?
Se facciamo fare un'analisi di laboratorio lo scopriamo subito: e con gran sorpresa scopriremo anche che talvolta siamo molto lontani dal mitico 100% promesso.
La quantità di idrato di calcio contenuta nell'intera materia consegnata dicesi titolo. E tale titolo di idrato di calcio, ovvero di calce spenta, secondo le normative vigenti non deve mai essere inferiore al 95%. Pertanto, dai vostri fornitori è sufficiente che vi facciate documentare su quale sia il titolo di idrato di calcio - Ca(OH)2 - del grassello che vi viene consegnato, e quale sia il residuo di ossido di calcio (CaO) in esso contenuto. I due valori spiegano rispettivamente la purezza ed il più o meno lungo tempo di macerazione.
Il titolo dovrà essere obbligatoriamente maggiore di 95, ed il residuo di ossido di calcio dovrà tendere allo zero. Se così sarà, aldilà di ogni bel discorso, avrete acquistato un ottimo legante; e se al contrario così non fosse, non fatevi abbagliare dai bassi costi. Non acquistate nulla che non sia alla vostra altezza. Meglio continuare nella ricerca di un materiale migliore e spendere due soldi in più, piuttosto che rischiare i risultati del nostro lavoro per l'insufficienza altrui.
Resti di affreschi della Villa di Tiberio a Sperlonga
Il lungo periodo di spegnimento delle calci, che per gli decoratori più sensibili e più sofisticati può durare anche due anni, è un valore che consente di ottenere:
a) che i calcinaroli, che ritardano ad idratarsi completamente, abbiano il tempo di estinguersi col fiorire perfettamente;
b) che i colori, tanto sofferenti all'azione delle calci appena spente, non vengano tormentati virando in tono, sapendo che un tempo prolungato di stagionatura fa perdere alla calce ogni primitiva qualità caustica e corrosiva. Al momento di servirsene, alla calce ed al colore, si dovrà unire la sola acqua, semprechè si osservi che questa sia purissima. Eventuali sali od altre impurezze, oltrechè guastare col tempo la compattezza delle tinte ne causano l'ingrato macchiarsi delle superfici.
E' bene avvertire che è errata l'opinione di coloro i quali credono che la calce macerata per lungo tempo faccia miglior presa negli intonaci e sia più resistente al contatto: nessuna calce aerea, spenta ed ammassata in pasta, migliora di qualità col tempo; i mastri muratori d'un tempo ci hanno insegnato che le calci fresche andavano subito usate per murare, anche quando sarebbe stato loro permesso di conservarle per l'invecchiamento.
Al buon artigiano basti ricordare che le calci fresche sono per il muro e le calci vecchie sono per i colori.
Acqua sul muro, aggrappo sicuro.
Calce forte per murature, calce grassa per finiture.
Si esclude inoltre che preventive passate di latte di calce, stese sull'intonaco di fresco apposto, possa in qualche modo contribuire a migliorare la presa delle successive tinteggiature a calce: l'unico effetto efficace che s'ottiene passando con acqua di calce sulle superfici prima di tingerle è quello di allontanare col pennello il velo di calce che copre la superficie lasciando scoperta la matrice grossolana della malta. Il che sarebbe sempre ben fatto, essendo che le tinte a calce durano di più su intonaci piuttosto ruvidi che lisci.
Per maggior facilità e sollecitudine di applicazione delle successive tinte, si potrebbe invece improntare una soluzione di allume (15-20% di allume in acqua) e con questa bagnare abbondantemente la superficie da tinteggiare. La soluzione più è satura e meglio rende allo scopo.
Non sempre le pareti da tinteggiare sono coperte da intonaci nuovi ed omogenei. Non di rado ci si trova di fronte a superfici miste, rappezzate e ricomposte. In tal caso per forzare un egual assorbimento su tutta la parete, insieme con la calce in pasta si stemperino 360 gr. circa d'olio di oliva, per ogni secchio di calce grassa, ovvero 30 chili di buon grassello stagionato, avendo cura di rimestarlo finché si è certi che l'olio non venga a galla al momento in cui all'impasto si aggiunga acqua, per diluir la tinta, secondo il bisogno.
La precisa quantità d'olio da adoperare non può essere indicata se non da una prova fatta sulla parete da tinteggiare. La misura dell'olio dipende essenzialmente dal grado di assorbimento che la parete stessa può avere in quanto più o meno vecchia o esposta all'aria e al sole. Inoltre l'assorbimento varia al variare della quantità di sabbia contenuta nella malta con cui si sono composti gli intonaci: ognuno comprende che più sabbia contiene l'intonaco, e maggior ne è l'assorbimento; meno ne contiene, e minore sarà questo.
La pratica insegna che bisogna andar cauti per la quantità d'olio da rimestar nella calce. Se da un lato l'olio riduce l'assorbenza dei fondi e rende più sollecito ed economico il lavoro, dall'altro, se aggiunto in eccesso, ha però l'inconveniente di togliere alla calce anche la minima aderenza e di rendere il lavoro di assai minor durata.
Per ottenere che le tinte a calce che contengono olio possano avere le migliori qualità e non risentire degli inconvenienti che le errate mestiche possono produrre, si potrebbe:
a) mescolare il preparato per l'ultimo strato, che sarebbe opportuno non contenesse olio, 400 grammi di polvere di carbonato di calcio impalpabile per ogni chilogrammo di calce in grassello, e quel tanto di colla forte che serve a fissare la tinta.
Alla colla forte si può sostituire la colla vegetale ed un goccio di olio di lino cotto, e non d'oliva, specialmente laddove le temperature tendono ad abbassarsi;
b) impastare con la calce mediamente forte un po' di trementina di Venezia in sostituzione dell'olio: essendo la trementina di Venezia alquanto vischiosa, si abbia l'accortezza di stemperarla con acqua calda prima di unirla alla calce;
c) mescolare nella tinta, per i lavori fini, massimamente per quelli che dovranno difendersi dalle intemperie all'esterno, la tempera d'uovo in quantità maggiore o minore secondo il quantitativo della calce nel colore. La tempera d'uovo, ottenuta con il rosso e l'albume assieme, si deve preparare usando dell'ottimo aceto, aggiunto alla tempera nella misura di 100 gr. per ogni uovo, rimestando prontamente per non dar tempo all'aceto di cuocere l'albume ed indurirlo.
d) si stemperi nella calce dell'olio di lino cotto nella misura del 10%, e si diluisca l'impasto con del latte grasso, sino a raggiungere il grado di consistenza desiderato.
Si deve aver cura che il latte (o il formaggio tenero stemperato nel latte) sia abbondante e non troppo allungato con l'acqua, il che potrebbe snervare le tinte e renderle di scarsa ritentiva; nel caso si volesse allungar la tinta lo si faccia sempre col latte e non con l'acqua, che così s'ottiene lo scopo voluto.
Prepara le malte quando l'aria è fresca.
Tinteggia quando si fa più tiepido.
Nella composizione delle tinte, qualora sia stabilito la qualità delle mestiche, bisogna aver cura di stemperar bene tutte le materie scelte, passarle con un colino metallico o con una calza di naylon a trama fine, e quindi mescolarle accuratamente al fine d'ottenere una soddisfacente uguaglianza della tinta.
I colori è assai utile averli da tempo guazzati, ovvero averli già stemperati in pasta. I colori in polvere, aggiunti all'impasto al momento di servirsene, compromettono talvolta i buoni risultati e la resistenza estetica.
E' inoltre buona cosa che i contenitori delle tinte rimangano coperti durante gli intervalli di lavoro, specie se lunghi: se le tinte sono molto colorate e di poca quantità, hanno per nemici, oltre la luce, l'aria e la polvere.
L'operaio addetto al tinteggio avrà cura di mantener la tinta sempre mescolata in modo da consumarla in modo omogeneo, e per nessuna ragione dovrà permettere che il pennello tocchi il fondo. Diversamente facendo, si corre il rischio di imprimer sulla parete, massimamente se si tratta dell'ultima mano, striature di colore addensato che compromettono l'intonazione e l'eguaglianza dei tinteggi sulle facciate.
Per le tinte a calce il pennello dev'essere alquanto morbido: e se questo fosse di setole lunghe, lo si accorci mediante un legaccio di spago non eccessivamente stretto, in modo che la tinta scorra in tutto il suo corpo.
Chi conduce il lavoro, lo faccia con mano sempre uguale e leggera, sostenendo il pennello col braccio e guidandolo col polso, evitando di poggiare il peso del corpo al muro che sta tinteggiando. Sia il pennello sempre guazzoso e ben nutrito di tinta, badando di non stendersi troppo con una sola pennellata. L'esperienza insegna, che più abbondante e più guazzosa sarà la tinta, e più questa, asciugando, riuscirà compatta e fresca. Vi sono dipintori che molto saggiamente diluiscono le tinte con acqua (o con latte secondo i casi) ogni qual volta si accingono a passare con una nuova mano.
Più guazzose son le tinte sovrapposte e più penetrante sarà l'effetto di assorbenza negl'intonaci.
Anzi si può esser certi che chi prepara e finisce il lavoro nel modo con cui s'è detto, questo riuscirà bello, facile e spedito.
Sassari
Un consiglio di
Bottega
Nelle stagioni umide o
anche fredde, per evitare che le tinte si congelino e macchino con qualche
danno, si consiglia di mescolare alla tinta una mestica seccativa così
composta:
100 parti di calce;
30 parti di biaccone;
10 parti di colla forte di pesce o carniccio;
2 parti di olio di lino cotto e chiarificato.
Questa ricetta, oltre che permettere alla tinta di ben asciugarsi a qualunque clima, facilita la riuscita del lavoro col risparmiare spesso una mano su tre, quasi sempre necessarie nelle tinte a sola calce.
Non si princìpi alcun lavoro di tinteggiatura se la temperatura dell'aria, tra il giorno e la notte, desse indizio di scendere sotto i 6°C, e se il clima s'avvicinasse a tale temperatura, sarebbe buona cosa il diluire le tinte con acqua tiepida, e subito applicarle: l'effetto sarà sempre più sicuro.
Per ragioni di economia e praticità, invece degl'ingredienti appena citati, avendo in animo di preparare una tinta resistente alle applicazioni a bassa temperatura, si può mescolare alla tinta del finissimo ed impalpabile carbonato di calcio nella misura massima del 30-40%.
Indagini istituite su strati superficiali d'intonaco e croste di coloritura antiche di secoli, raccolte in diverse regioni, hanno sempre rivelato la presenta di aggregati finissimi composti di carbonato di calcio crudo ottenuto dalla frantumazione di graniglie di marmo ridotte in polvere; da ciò probabilmente la loro resistenza all'azione atmosferica.
Il carbonato di calcio che si trova in commercio, sottoforma di polvere impalpabile, misto al latte di calce, con o senza colori, è di valido aiuto per la resistenza alle basse temperature, alla corrosione dei colori, agli effetti dell'umidità delle facciate e del clima.
Al latte di calce misto alla polvere di marmo impalpabile è opportuno aggiungere un po' di colla, quando deve servire per tinteggiature fatte in stagione fredda e umida, e ciò allo scopo di non sfarinare al tocco o di impastarsi alla successiva mano.
Al buon artigiano non serve precisare il numero degli strati di tinta a calce, perché in ciò concorre molto la sua abilità ed esperienza: egli dovrà abilmente usare braccia e polso per manovrare il pennello, curando che il suo corpo non segua il movimento del polso; egli condurrà l'attrezzo naturalmente da sinistra a destra o dall'alto al basso sino a portare il lavoro a buona fine.
La densità del corpo della tinta ha influenza sul grado di copertura del colore: e quando questo grado è ben compreso dall'operaio, egli potrà ridurre l'opera a due soli strati, a tutto vantaggio per il tinteggio il quale se posto in strati sottili terrà lontane le ragioni dello scrostamento.
Non in tutte le regioni del nostro Paese la tecnica del dipingere con tinte a calce procede da egual tradizione. Vi sono luoghi ove i tinteggi sono applicati e rinnovati con il ricercato intento di difendere le mura dall'aggressione degli agenti atmosferici e non già con il mero scopo di elevare le facciate dei nostri palazzi a miglior decoro.
Nella tradizione pugliese, per esempio, vi è l'antica usanza di scialbare le strutture di pietra leccese con materie e tecniche in modo che il naturale colore dei conci non venga alterato dalle velature trasparenti ad essi sovrapposti, pur operando in modo che le pietre trovino in questi tinteggi protezione e solidità.
La pietra leccese è una porosissima arenaria di origine marina che ha dalla sua il gran pregio d'esser lavorata di sega, scalpello e pialla proprio come si lavora il più docile dei legni. E' interessante scoprire come i leccesi abbiano per secoli affinata una tecnica che li vede maestri nel preparare mestiche di calce da scialbare sulle loro pietre per difenderle dall'oltraggio del tempo.
Altri trattano la pietra di Trani ed i tufi napoletani avendo in animo di raggiungere lo stesso scopo, e tutti i vecchi mastri che io ho conosciuto, nascondono gelosamente le proprie ricette, che tramandano con qualche indugio ai soli figli che facciano il loro stesso mestiere.
Molti sono i mastri dipintori che ho incontrato e molte sono le segrete ricette che mi sono state svelate: tutte, però, avevano per fine il rassodare le facciate composte di conci di leggère arenarie, ed impedire alle intemperie di eroderne le superfici.
Dirò di come vidi lavorar un vecchio artigiano leccese: e non lo faccio per svelare un segreto o per insegnar una possibile tecnica, poiché come ho già detto vi sono più maniere di lavorar che artigiani, ma per avviare il lettore a miglior comprensione sui modi di trattar le calci, gli oli, le colle ed i colori allorché il fondo su cui siamo chiamati a tinteggiare sia oltremodo assorbente.
I conci delle pareti, che costituiscono le facciate esterne degli edifici in territorio pugliese, è usanza che vengano levigati in modo che non si possa distinguere la cesura fra una pietra e l'altra se non fosse per il sottilissimo filo di calce che rivela la matrice bianca che a malapena si intravede sul color biondo dorato della pietra leccese.
Dell'ottima calce grassa, che è stata lasciata a macerare nelle fosse per lungo tempo, viene stemperata in un mastelletto con un bricco di comune olio d'oliva, ovvero un terzo di litro ogni 30 chili di grassello. L'impasto vien mescolato e rimestato, a lungo e con cura, finché ogni traccia dell'olio sia scomparsa.
Alla calce, che dopo l'energico trattamento risulta ben cremosa e untuosa e di leggero color dorato, s'aggiunge una quantità di latte grasso bollito in una misura pari al peso dell'impasto di calce appena preparato.
A proposito: prima di continuare con la spiegazione, onde evitare di crear confusione coi termini che andrò qui di seguito ad usare, è d'uopo spiegare la differenza fra due materie molto ben conosciute dai vecchi mastri dipintori di Bottega.
Dicesi latte di calce la diluizione del grassello, in una quantità d'acqua, sinché questi non assuma la consistenza e la fluidità del latte. Per contro, dicesi calce di latte la diluizione della calce effettuata con del vero e proprio latte grasso di vacca bollito, al fine di conferire, al composto che s'ottiene, particolari qualità collanti e ritentive.
Seguitando con la spiegazione dei lavori di scialbatura che si vedono in Lecce, farò riferimento alla calce di latte mescolata col latte (scusate il bisticcio), e non già del più comune latte di calce attenuto dal grassello diluito in abbondante e limpida acqua di fonte, e che del latte ne ha solo il nome ed il colore.
Per la sola stesura della prima mano, alla calce di latte mista all'olio, che s'appronta per tinteggiare le superfici in pietra leccese, vien aggiunta una modesta quantità di tufina, ovvero la finissima polvere di segatura che s'ottiene dal taglio dei blocchi delle medesime pietre con le seghe. L'apporto di tufina, nell'impasto, s'aggira attorno ai 5-6 chili per mastelletto, il che equivale al 30% circa del peso della calce: ed essa viene rimestata al grassello al momento in cui a questo vien aggiunto l'olio.
La presenza nell'impasto della tufina, che è fine come polvere di strada, ha per iscopo quello di turare le porosità superficiali delle pietre con una materia che dalle stesse pietre deriva.
Allorchè la prima mano, stesa con abbondanza di materia, si è asciugata, vi si passano ulteriori due mani di calce di latte ed olio, senza aggiunta di tufina. Il risultato che s'ottiene è di gran pulizia e levigatezza, poichè con la prima mano si è ridotto fortemente il potere di assorbenza dell'arenaria, e con le seconde due si è potuto "verniciare" la superficie senza che la calce di latte e l'olio fossero totalmente "bevuti" dalle porosità del fondo.
Un modo ancor più efficace per tinteggiare la pietra leccese prevede l'uso di diversi altri ingredienti e ciò per esaltar vieppiù la riduzione d'assorbimento delle arenarie e conferir ad esse spiccati caratteri di difesa dalle intemperie.
Ho veduto trattar piccole campiture, stupendamente istoriate, in maniera tanto bella quanto antica.
Sulla pietra cruda, ma levigata, vien strofinato il succo di una mezza cipolla selvatica, che cresce spontanea in quei luoghi e che i locali raccolgono sin dalla più precoce primavera. Questa sativa, che nel vernacolo leccese vien detta "cipuddhazzu", vien tagliata in due parti lungo l'equatore e vien lungamente strofinata e spremuta in superficie ed all'interno delle porosità della pietra.
Il cippuddazzu leccese si può assimilare all’aglio, il quale ha le stesse funzioni collanti come si ha dal fiele di bue. Energiche strofinature su supporti di qualsiasi natura (anche petrigna) consentono buona aderenza (ritentiva) agli scialbi ad essi sovrapposti.
Sopra il succo di cipuddhazzu, che si rivela al tatto essere estremamente colloso, vengono stese due mani di calce di latte ed olio d'oliva senza aggiunta di tufina.
Sul fondo così trattato, che una volta asciugato già repelle l'acqua, viene stesa una velatura di calce di latte (senz'olio d'oliva) nella quale è stata stemperata una certa dose di colla di pesce precedentemente sciolta a bagnomaria e diluita col latte bollito.
Nell'aggiuger la colla alla calce di latte non si ecceda il 10% del peso del grassello che si usa per preparar la tinta: la troppa colla nelle velature di finitura è causa talvolta di impercettibili screpolature superficiali, che all'occhio esperto svistano e sono sempre fonte di fastidiose critiche.
Per rendere più sollecito e più sicuro il lavoro finale, alla colla di pesce viene aggiunta una piccola dose di olio di lino cotto, il quale, oltre a rendere la tinta ben solida al tatto, conferisce al lavoro finito, brillantezza e trasparenza. Una siffatta tinta resiste a lungo nel tempo e col tempo brunisce e s'indora assumendo sfumature ed ombre molto belle: anzi, bellissime.